Female Collection: Collezione Donata Pizzi, frammenti di storie mancanti

Azzurra Immediato: Come è nata la Sua collezione e qual è stata la scaturigine che ha dato vita ad una costruzione sistematica da un lato e sperimentale dall’altro, in grado di ricostruire un segmento altrimenti dimenticato della Storia della Fotografia?

Donata Pizzi: La Collezione è parte importante della mia biografia. Compiuti i 50 anni, dopo aver lavorato per 30 anni come editor, agente, ricercatrice iconografica e fotografa ho pensato di poter fare qualcosa a sostegno della fotografia italiana. Nel frattempo ho imparato molto dalla pratica collezionistica, la disciplina nello studio e l’apertura verso le donne dietro le fotografe. È nello scambio con loro che la collezione è cresciuta e mi ha accresciuta auto-organizzandosi, governando le proprie scelte attraverso linee di ricerca precise e non solo grazie allo sviluppo cronologico che la tiene insieme.

A.I.: In che modo la Sua professione di photoeditor Le ha mostrato la necessità di colmare le lacune che, poi, attraverso la ricerca della Sua Collezione, oggi sta riuscendo a riperimetrare? E qual è la differenza d’attenzione che viene destinato alla Fotografia al Femminile in Italia e all’estero?

D.P.: Sono sempre stata convinta della qualità della fotografia italiana e purtroppo contemporaneamente anche consapevole della sua marginalità, all’interno del paese e di conseguenza all’estero. Come per l’arte contemporanea in generale la nostra fotografia soffre di un complesso di inferiorità riferibile probabilmente alla nostra cultura più orientata all’antico e alla nostra estetica condizionata dal classico. Nella formazione, nelle Accademie e nei corsi universitari lo studio e la ricerca in fotografia hanno sofferto soprattutto di discontinuità mentre all’estero già da tempo si è potuto constatare come l’attivazione del circolo virtuoso pubblico-privato-scuola-mercato in questo ambito abbia portato vantaggio reciproco: penso in particolare al caso di studio dei coniugi Becher e della Scuola di Dusseldorf.

A.I.: La Collezione che porta il suo nome si addentra nelle specificità occorse dagli anni ’70 del Novecento ad oggi. In che modo è cambiata la percezione del fare fotografia da parte delle artiste e delle reporter e in che maniera, al tempo stesso, è mutato quello di osservare le immagini da parte del pubblico?

D.P.:Negli ultimi anni Sessanta e primi Settanta il movimento femminista si espande in Italia con diverse tendenze tra Milano e Roma. Molte artiste colgono nello strumento fotografico la possibilità di veicolare più direttamente e incisivamente il messaggio femminista: penso a Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Libera Mazzoleni, Paola Mattioli, Marcella Campagnano che a partire da quel momento includono la pratica fotografica nella loro sperimentazione con risultati potenti e originali. La mia opinione è che l’ingresso di queste intellettuali coincida con una “maturazione” della fotografia che comincia ad orientarsi verso le tematiche che si svilupperanno nei decenni successivi e condurranno  fino al concettuale e alla post-fotografia. Oggi tutte le fotografe, anche chi pratica il reportage più tradizionale è debitrice, spero consapevole del contributo delle generazioni di artiste che le ha precedute in quei decenni.

A.I.: Come si sviluppa la Sua ricerca relativa alla Collezione? Perché una collezione dedicata alla sola fotografia al femminile?

D.P.: Pensando a quali immagini iconiche includere per creare la struttura della collezione mi sono accorta di pensare soprattutto ai lavori di artiste come Marialba Russo, Carla Cerati, Lisetta Carmi e Letizia Battaglia e ho deciso di conseguenza di concentrarmi su queste “sacrificando” autori grandissimi il cui lavoro mi affascina come ad esempio quello di  Mario Cresci. Si tratta quindi di una collezione molto di nicchia, eppure l’avere scelto di concentrarsi su di un segmento così ristretto sembra piuttosto aver dato forza al progetto. Ho acquisito le opere in grandissima parte dalle stesse artiste stabilendo con loro uno scambio e spesso creando con loro un legame di amicizia e solidarietà. È stato importante per me anche anche impostare la parte burocratica della collezione cioè quella che riguarda le autentiche, le edizioni, a tutela del valore delle opere e in modo da stabilire riferimenti certi per il mercato. Soprattutto le artiste della generazione storica avendo prodotto esclusivamente per giornali non avevano gallerie o agenti a rappresentarle  mentre le artiste più giovani hanno già consuetudine con il mercato, le tirature e con quanto è necessario perché un sistema sicuro di valore si possa creare.

A.I.: Fotografia e Libri d’Artista sono le due grandi macro aree su cui la Collezione Donata Pizzi affonda la propria ricerca. In che maniera questi due linguaggi dialogano e, soprattutto, hanno la forza di costruire qualcosa che, fino al 2013 – anno dell’avvio della Sua ricerca strutturata – era rimasto sotteso e nascosto?

D.P.: Proprio sui libri ho cominciato la mia ricerca, cercando tra cataloghi, biografie, libri d’artista, ephemera, insomma tutto quello da cui poter ricavare il massimo di informazioni per poter meglio conoscere l’artista e il contesto. Ci sono ormai più di 200 libri in collezione (prossimamente sul sito) .Tra questi, il  celeberrimo “I travestiti “ di Lisetta Carmi ma altrettanto interessante tra le molte altre, la storia di Augusta Conchiglia, segnalatami da Paola Agosti sua allieva. Ho prima trovato, non senza difficoltà il libro in rete ”Lotta di popolo in Angola“  (pubblicato nel 1968 da un editore milanese successivamente  fallito ) e poi ho contattato l’autrice per farmi raccontare la sua incredibile storia. Conchiglia ha accompagnato per due anni il popolo angolano nella  dura lotta per l’emancipazione  dal colonialismo portoghese. Il libro costituisce un eccezionale documento  di condivisone e partecipazione che racconta per immagini il momento rivoluzionario di rifondazione del paese.In questo, come in tutti i casi in cui esistono sia la pubblicazione che le stampe (possibilmente vintage) trovo molto interessante poterli mostrare entrambi. 

Altro discorso, altrettanto affascinante,  quello dei libri d’artista: è interessante notare come negli ultimi anni l’editoria indipendente si sia sviluppata soprattutto nel settore della fotografia, con migliaia di libri auto prodotti.

In questo settore ho privilegiato le produzioni recenti di artiste delle ultime generazioni , penso a “ POP UP” di Elisa Abela, una riflessione in forma di oggetto proprio sul libro fotografico, o a “Becoming Simone“ di Alessia Bernardini che in modo sapiente attraverso il gioco tra grafica e contenuto affronta il tema sensibile del cambio di genere. Mi incuriosisce  la capacità delle autrici di analizzare con sensibilità e con ironia i temi più diversi ad esempio il trauma dei terremoti in “Temporary House” di Francesca Cao o  gli aspetti inquietanti della sorveglianza nell’era digitale in “Nosy” di Valentina Loffredo.

A.I.: Come mai, secondo Lei, la fotografia femminile è sempre ed ancora racchiusa o relegata ad una nicchia dalla quale le artiste e fotografe fanno fatica ad emergere? Dove sono situati i limiti di questa gabbia storica ed antropologica?

D.P.: In verità come ben descritto da Federica Muzzarelli c’è un legame forte tra donne e fotografia sin dall’invenzione di questa a fine Ottocento, in un periodo ricco di trasformazioni sociali culturali ed economiche… quando un nuovo strumento tecnologico diventa per la prima volta l’alleato naturale di una “minoranza” fino a quel momento negata… che ora coltiva esplicitamente ambizioni artistiche e rivendicazioni di autonomia professionale”. Eppure in Italia solo un secolo dopo in riusciremo a leggere le prime ricerche storiche sulla fotografia che adottino una prospettiva di genere. Quanto alle ragioni di questo ritardo possiamo farle risalire a quelle comuni a tanti altri aspetti che riguardano il femminile ancora in un passato molto vicino.

A.I.:  La Collezione Donata Pizzi raccoglie un corpus di lavori che racchiude diversi decenni. In cosa è cambiata, maggiormente, la visione femminile nella fotografia ultra contemporanea?

D.P.: Quello che lega i lavori così diversi di autrici di generazioni distanti è nel mio intento la comune militanza su temi culturali sociali e politici affrontati attraverso il passare dei decenni nei modi più vari attraverso elaborazioni sempre più profonde e affascinanti. (“Ho preso le distanze” 33 Polaroids di Irene Fenara)

A.I.: Progetti per il futuro della Collezione? 

D.P.: Abbiamo prodotto quest’anno il primo di una serie di Quaderni che dedicheremo ogni volta ad un tema monografico, in collaborazione con una istituzione straniera. Per l’anno 2023 abbiamo scelto di trattare il tema del Re-Enactment con FOTODOK di Utrecht in Olanda.

Nel 2024 avremo finalmente una sede a Roma, dove la Collezione sarà conservata ed esposta a rotazione a disposizione di studenti, curatori che avranno accesso anche all’archivio e alla biblioteca.